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Tito Boeri l’economista bocconiano presidente dell’INPS nella suo piano di riforma previdenziale propone l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari e il ricalcolo al ribasso con il sistema contributivo delle pensioni d’oro calcolate col sistema retributivo. Il mondo politico insorge da destra, sinistra e centro.
Con lui al momento c’è solo il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo.

Possiamo continuare a tenere fuori dalla porta una parte importante e consistente della nostra società?
E ancora. Può il reddito minimo garantito rappresentare una risposta in tal senso?

Col suo piano, Boeri ha già risposto a questa semplice domanda. Ha capito cioè che dobbiamo farli accomodare e sedere a tavola con noi. Impegnarci ad includere coloro che stanno fuori dalla porta o nella zona grigia della società, piuttosto che incrementare la fetta di torta di chi è già seduto a tavola. Ma anche redistribuire meglio la ricchezza.
Si tratta, come sosteneva l’economista liberale Ralf Dahrendorf, assieme ai teorici del “reddito minimo garantito” di contribuire alla riqualificazione della forza-lavoro e mitigare il saldo del mercato del lavoro. In buona sostanza si tratta di far rientrare nel gioco quella fetta di popolazione priva di reddito (disoccupati, inoccupati, persone prive di pensioni e reddito, giovani in cerca di occupazione) esposti al degrado, emarginazione e talvolta criminalità.

Il dibattito politico in auge, laddove presente, si pone come obiettivo la lotta ed il contrasto alla povertà attraverso misure prevalentemente economiche, mentre personalmente penso piuttosto ad affermare un diritto universale e non una misura che di fatto introduce uno stigma, quello di “povero”.
Ma da qualche parte bisogna pur incominciare.

Il reddito minimo garantito inteso come misura per contrastare la povertà rappresenterebbe il prodotto di un’etica caritatevole dello Stato, riporterebbe in vita il diritto dei poveri, stigmatizzerebbe una differenza che istituzionalizzata assumerebbe il valore di un marchio: il marchio dei poveri.
Invero il tema della povertà come la disoccupazione rappresentano le due facce di una stessa medaglia, (di)mostrano cioè l’incapacità delle nostre società ricche e opulente di dare a tutte le persone entro i propri confini uno status di cittadini. E’ ormai risaputo che è possibile produrre crescita economica senza ridurre in modo consistente povertà e disoccupazione, e che le politiche economiche della società del lavoro sembrano non essere paradigmi sufficienti a conservare la stessa società Sicché essendo il lavoro la principale fonte di reddito, venendo quest’ultimo a mancare è molto facile che si finisca coll’essere povero.
Ecco quindi l’esigenza di uno sforzo corale nel percorrere strade nuove che possano tirare fuori dalle paludi della discussione politica, una teoria politica che ri(fondi) il patto sociale stabilendo “diritti di cittadinanza” per tutti e non “tessere di povertà”.
Il contratto sociale d’altronde non è qualcosa di immanente, che può essere racchiuso in asettiche formule una volta per sempre, ma richiede un arricchimento costante, in quanto costituisce esso stesso un progetto: il progetto itinerante della storia di una comunità

Amartya Sen, con la teoria esposta nel suo libro su povertà e carestie, dimostra come sia possibile morire di fame anche in mezzo all’abbondanza, non per via della scarsità dei beni disponibili ma per l’assenza di diritti di accesso ai beni.
Ogni individuo, egli dice, per il fatto stesso di vivere in società deve avere in dotazione un pacchetto di diritti “entitlement set” ovvero “diritti di cittadinanza”, intesi come uno status di cui fanno parte oltre ai diritti politici e giuridici, anche i diritti civili sociali, e tra questi potrebbe essere annoverato anche il diritto ad un reddito decoroso per condurre un vita civile, anche quando si è ammalati, vecchi, disoccupati, privi di reddito o comunque insufficiente.

Così inteso il “reddito minimo garantito” perderebbe il suo carattere discriminatorio, eviterebbe di rappresentare un target, una zona di confine e si connoterebbe come componente fondamentale dei diritti civili senza i quali in pratica crollerebbe la società dei cittadini. In buona sostanza si tratta, come sostiene Rahlf Dharendorf di ridefinire il pavimento di una casa comune in cui il suo riconoscimento giuridico come diritto fondamentale individuale potrebbe trovare la sua inattaccabilità solo se riconosciuto a livello costituzionale.

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