
Il 27 gennaio del 1945 i soldati dell’Armata rossa entravano ad Auschwitz.
L’abbattimento dei cancelli del più vasto campo di sterminio nazista rappresentò un avvenimento prevalentemente simbolico. Il campo era già stato evacuato e i prigionieri trasferiti forzatamente, in una lunga marcia sotto la neve, all’interno del territorio tedesco.
La Repubblica italiana, con la legge 211 del 20 luglio 2000, ha riconosciuto la giornata del 27 gennaio come “Giorno della Memoria“, affinchè le future generazioni non dimenticano.
Seguono alcuni ricordi ed emozioni di un viaggio, toccando alcuni luoghi simbolo della barbarie commesse, in nome della razza, da uomini verso altri uomini.
Avevamo stabilito il campo base a Cracovia, antica capitale della Polonia, fino a quando nel 1611, cedette lo scettro a Varsavia. Per questo si salvò dalle terribili distruzioni della Seconda Guerra Mondiale.
Città dalle antiche mura con le sue torri, i leggeri palazzi, le nobili chiese, Cracovia è la città più allegra della Polonia, con le sue piazze, cantine e divertenti ristoranti.
Penetrando le sue antiche mura, attraverso Porta Florianska, si accede alla bellissima Piazza Rinek, la piazza più bella, dove anticamente i mercanti commerciavano le loro mercanzie.
Eravamo lì da tre giorni, ma il pensiero fisso era conoscere Auschwitz. Il sole, in quella mite giornata d’agosto polacco, appariva a sprazzi, e le nuvole, minacciose, a volte sconfitte da un leggero vento di scirocco, liberavano il cielo, riscaldando l’aria. Ci indicarono di puntare verso Oswiecim, cittadina polacca distante circa 30 km da Cracovia.
Dopo circa 30 minuti di viaggio, non trovando alcun cartello che ci indicasse Auschwitz. Pensammo allora di chiedere a qualcuno. “Proseguite in direzione Oswiecim per un’altro chilometro”, ci dissero. Infatti subito dopo, notammo sulla destra, lungo la carreggiata, un cartello con l’indicazione “Museum”. Intuimmo, avendone subito conferma, che eravamo arrivati. Non c’era un solo elemento che indicasse quel luogo come il campo di concentramento di Auschwitz.
Seguimmo le indicazioni abbandonando la statale verso destra. Qualche centinaio di metri più in là, una sbarra a destra, delimitava un parcheggio alberato.
Dopo aver parcheggiato, cercammo immediatamente una guida che parlasse italiano. Non potevamo permetterci di perdere una sola parola di quell’esperienza che ci accingevamo a vivere.
Pagato il biglietto entrammo e seguimmo la guida costeggiando una scultura posta nell’atrio di ingresso del museo. Era una donna polacca, bionda, dall’apparente età di 55 anni. Ci impose un’unica regola: “Non fumare”.
Abbandonato il corpo di fabbrica, dov’era il check-in, uscimmo lungo un viale in terra, battuto dal camminamento di coloro che ogni giorno sotto scorta con le armi puntate uscivano per lavorare al servizio del Terzo Reich.
Fatti pochi passi la voce della guida catturò la nostra attenzione. “Buon giorno, vi trovate nel primo campo di concentramento nazista in località Oswiecim, ribattezzato Auschwitz, dopo l’occupazione tedesca del 1939”.
Erano delle caserme prebelliche abbandonate. Vennero riutilizzate dai tedeschi perchè lontane dal centro abitato, ma anche perchè Oswiecim, disponeva di una buona rete di comunicazione, essendo uno dei più importanti nodi ferroviari.
Sappiamo bene di come si sia rivelata strategica questa scelta, non casuale, se si considera, che i prigionieri, arrivavano via ferrovia da tutta Europa.
Fondata nel 1940 per internare i prigionieri politici polacchi, inizialmente venne utilizzata come strumento di terrore e di sterminio del popolo polacco dopo l’invasione del 1939 ad opera dei tedeschi da ovest i russi da est, dando corso al patto russo-tedesco Molotov-Ribbentrop.
Successivamente i tedeschi iniziarono a deportarvi gente da tutta Europa, principalmente ebrei, provenienti da stati diversi, ma anche prigionieri di guerra sovietici e zingari.
L’ordine di fondazione fu emanato nell’aprile del 1940 e Rudolf Hess ne fu nominato comandante. Il 14 giugno 1940, la Gestapo condusse ad Auschwitz i primi 728 prigionieri polacchi provenienti dal carcere di Tarnow.
All’inizio nel campo erano presenti 20 edifici di cui 14 con il solo pianterreno e 6 con il primo piano. Nel 1941-1942, con il lavoro degli internati, fu aggiunto un piano a tutti gli edifici. Complessivamente il campo disponeva di 28 edifici di un piano. I detenuti oscillavano tra i 13.000 e i 16.000, superando nel 1942 le 20.000 unità. I prigionieri erano alloggiati in costruzioni chiamati blocchi, sfruttando anche le soffitte e i seminterrati.
Proseguiamo per una decina di metri seguendo la stradicciola che invitava verso destra, trovandoci di fronte ad un cancello in ferro, sovrastato da una scritta cinica: “Arbeit Macht Frei” (Il lavoro rende liberi). Stavamo entrando nel campo di concentramento di “Auschwitz”, seguendo la stessa strada che i detenuti percorrevano, quando uscivano e tornavano dal lavoro massacrante di tutti i giorni. Il passaggio del prigionieri, al rientro, davanti alla piccola piazzetta adiacente le cucine, era scandito dall’orchestra del campo che suonava marce militari che dovevano razionalizzare il passaggio di migliaia di internati e facilitarne la conta da parte delle SS.
Il campo di Oswiecim (Konzentrationslager Auschwitz I) per la sua importanza divenne il campo madre (Stammlager) per tutta la rete dei nuovi campi che man mano venivano costruiti per far fronte ai sempre più numerosi arrivi da parte di tutta Europa.
Nel 1941 si costruì un’altro campo di concentramento di Oswiecim (Konzentrationslager Auschwitz II – Birkenau), nel paese di Brzezinka, a 3 km di distanza. Osservando la planimetria della zona, si capisce come la logistica nazista era impeccabile, scientifica. Nulla era lasciato al caso. Persino la fabbrica che produceva il famigerato gas Zyklon B era situato nelle vicinanze e, ovviamente, la stazione ferroviaria di Osweicim.
Non descriverò nei dettagli ciò che ho avuto modo di vedere. E’ molto difficile trovare le parole ma è anche un invito a vivere nelle propria intimità il “viaggio” nei luoghi della memoria. Posso solo dire che è stata un’esperienza indimenticabile che ha modificato strutturalmente il mio pensiero di essere umano. Si può decidere di andare ad Auschwitz, ma non si può decidere di tornare allo stesso modo di come si era partiti.
Per questo mi limiterò a descrivere solo alcuni luoghi ed alcune vicende dove la barbarie nazista ha raggiunto il suo apogeo rendendo difficile persino la sua comprensione. Per la crudeltà che si è consumata, qualcuno ha detto che ad Auschwitz , dio è morto.
La deportazione, dopo i rastrellamenti, avveniva via ferrovia e una volta arrivati qui, venivano contati. Le donne separate dagli uomini, quelli in salute dagli infermi, i figli dalle madri e queste dai loro mariti. Anche i gemelli, venivano separati dagli altri al grido di “Zwillinge heraus!” (“Fuori i gemelli”), per essere usati come cavie, negli esperimenti effettuati personalmente dal dott. Mengele. Le tragedie familiari si consumavano e da quel momento molte famiglie non si sarebbero più ricomposte.
Non più esseri umani, ma solo numeri marchiati in modo indelebile sui propri corpi.
L’intero complesso, nel suo impianto originale, è adibito a museo e i blocchi che ospitavano gli internati, suddivisi in sale, sono stati utilizzati per custodire, ma nel contempo, far conoscere attraverso esposizioni di oggetti personali, utensili, fotografie e registri, la tragedia che qui si è consumata. Ma a parte tutto quello che è stato distrutto dai nazisti durante la loro fuga, per tentare di cancellare le tracce dei loro crimini, gli scantinati sono pieni di materiale ancora da visionare e inventariare.
Infatti visitando le sale interne ai blocchi, è possibile vedere, protette da vetri tenute ad una temperatura costante, per evitare il loro deterioramento, montagne di valigie, scarpe, occhiali, oggetti personali, gamelle e pentolame, capelli, ma anche oggetti di tortura utilizzati dalla gestapo, o strumenti medici serviti al dott. Mengele, per i suoi esperimenti sui gemelli. Esperimenti, è bene dirlo, che non avevano assolutamente alcuna base scientifica.
Arriviamo al blocco 11 definito “Il blocco della morte“.
Questa parte del campo è estremamente dolorosa e impone silenzio. Nel contempo spettrale se si immagina per un istante tutto quello che era potuto accadere.
Blocco della morte intanto perchè?
Nel cortile, tra il blocco 10 (dove Mengele effettuava i suoi esperimenti) e il blocco 11, recintato da ambo i lati da un alto muro, le SS hanno fucilato migliaia di prigionieri (soprattutto polacchi). In questo stesso cortile, erano eseguite pure le fustigazioni e la pena del paletto, che consisteva nell’appendere i detenuti con le mani legate dietro la schiena. E’ possibile notare che il blocco 10 posto a sinistra del cortile, aveva le persiane in legno fissate alla finestra per impedire agli altri prigionieri di assistere alle fucilazioni. Il blocco 11 posto lontano dal resto del campo era adibito anche a prigione.
Nei suoi sotterranei nel 1941 furono fatte prove di uccisioni di massa con il Zyklon B. Nelle celle degli scantinati, erano rinchiusi i prigionieri del campo e la popolazione civile sospettata di avere contatti con i detenuti. Le autorità del campo svolgevano selezioni periodiche, definite “cernite” o “pulizia del bunker“. I detenuti scelti venivano fucilati o mandati in una compagnia punitiva. Nel 1941 le autorità del campo rinchiusero qui, in una cella, il sacerdote polacco padre Maksymiliam Kolbe, che sacrificò la sua vita per salvare quella di un altro internato. Nella cella 22 si trovano piccoli bunker punitivi delle dimensioni di 90 x 90 cm, nei quali venivano rinchiusi coloro che dovevano scontare una punizione “speciale”. In queste celle di punizione si accedeva da una porticina piccolissima in ferro posta alla base del pavimento, quindi dal basso. Il prigioniero era costretto a prostrarsi per entrare e stare in piedi una volta entrato per via delle dimensioni ridotte dello spazio. Privo di finestre, i prigionieri potevano respirare prendendo aria solo da un pertugio a tronco di cono grande quanto un bottone.
Diverse volte la guida polacca ha dovuto interrompere il suo racconto colta da un pianto improvviso. Un dolore ancora vivido e presente non ostante il tempo trascorso.
Prima di andar via le chiesi: Che rapporti hai con i tedeschi?
Mi guardò negli occhi e disse “Non parlo tedesco!”.