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Max Weber, sociologo e politologo tedesco, riteneva che ogni azione umana è mossa da un interesse. 

Questa interpretazione, o concezione della vita, è a sua volta plasmata da fattori sociali, culturali e individuali. In altre parole, il nostro sistema di valori, le nostre credenze e le nostre esperienze influenzano il modo in cui percepiamo le situazioni e decidiamo di agire.

Così inteso l’interesse si configura quindi, come motivazione, o, se vogliamo, necessità,  che spinge l’individuo ad agire in coerenza con la propria concezione della vita e la sua intimità. 

E questo vale per tutti. Siano essi cittadini, politici, giovani artisti, poeti, scrittori, musicisti o pittori, che si cimentano nella creazione di un’opera.

E allora ha senso chiedere come fa Kappus, un giovane poeta, se i suoi versi, cioè la sua opera, e, in linea di principio qualunque altra opera, è buona oppure piace? O forse la domanda da porsi deve vertere sulla motivazione e quindi sulla necessità che spinge le persone a produrre un’opera, e pertanto, sulla felicità che ne deriva dall’averla compiuta? 

La differenza è sostanziale. La prima mette in relazione il tuo stato d’animo con una variabile esterna che è fuori di te (esogena), sulla quale non hai alcun potere e pertanto non puoi modificarla. Eppoi è così importante? Mentre l’altra attiene uno stato psicologico che è dentro di te (endogena) su cui hai tutto il potere.

La felicità è un valore essenziale nella vita delle persone.

La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, nel suo preambolo, oltre ad affermare che “tutti gli uomini sono creati eguali”, vagheggia il diritto delle persone alla “ricerca della felicità”.

Non parliamo della felicità eterna, quella cioè che l’uomo persegue attraverso un’esperienza personale, sia essa etica, morale o religiosa, ma quella terrena o se vogliamo politica. 

La felicità è così importante nell’esperienza di ognuno di noi che persino Papa Francesco nel suo messaggio augurale di alcuni anni fa si è rivolto ai fedeli dicendo “TI AUGURO DI VIVERE UN FELICE 2016”, e lo ha fatto accompagnandolo con un autentico inno alla felicità che si chiude con “Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!”

Kappus è un giovane poeta a cui piace comporre poesie. Manda alcuni versi a Rainer Maria Rilke e gli chiede un parere su come egli scrive e se i suoi versi siano buoni.

Rilke, tra il 1903 e il 1908 intrattiene una fitta corrispondenza epistolare col giovane poeta. Le lettere furono pubblicate postume nel 1929. Nei paesi di lingua tedesca si diffusero così rapidamente da diventare una specie di breviario di vita.

Interessante leggere come Rilke risponde al giovane poeta, in una delle sue lettere.

Lettera inviata da Parigi il 17 febbraio 1903

Egregio signore,

la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso. Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me. Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.

omissis …

Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri. Li invia alle riviste. Li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove. Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo. Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime. Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo. Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le, rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi. Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è. E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista. Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno. Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.

Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso). Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.
Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.

omissis …

Suo devotissimo
Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta (Mondadori, 1994), a cura di M. Bistolfi

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