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Berlino 1961, Checkpoint Friederich Strasse
Berlino 1961, Checkpoint Friederich Strasse

La notte del 13 agosto del 1961, la DDR (Deutsche Demokratische Republik) con un gesto unilaterale, adottò misure di sbarramento lungo la linea di demarcazione tra il settore orientale e quello occidentale della città di Berlino. L’ordine era di sparare a vista per chiunque avesse tentato l’attraversamento. All’alba di quel giorno, le mogli si ritrovarono separati dai mariti, i figli dai genitori, i nonni dai nipoti e gli anziani privati dell’aiuto dei parenti. Quello che fino a qualche giorno prima sembrava essere solo un timore divenne realtà e il mondo restò annichilito.

Ecco un frammento di quella storia, intriso di amicizia e libertà, il cui l’epilogo del 9 novembre del 1989, (caduta del “Muro”), ha segnato la fine della “Guerra Fredda”.

Domenico Sesta detto Mimmo, è un giovane studente di origine pugliese che studia in Germania per diventare ingegnere edile. Vive in stretta amicizia con un altro studente italiano Luigi Spina, detto Gigi, conosciuto a Gorizia durante le superiori. Gigi  frequenta l’Accademia di Arti Grafiche a Berlino.

Mimmo, concluso a Dusseldorf un primo periodo di praticantato, si era deciso, cedendo alle insistenze dell’amico italiano Gigi, ad iscriversi al Politecnico di Berlino.  

Il carattere aperto e solare dei due giovani italiani li porta a stringere amicizia con  giovani studenti tedeschi. Tra questi c’è Peter Smith che sarà la causa ispiratrice dell’epica impresa di scavare un tunnel sotto la striscia della morte che divideva Berlino dopo l’erezione del Muro.
Fu così che dalla cantina abbandonata del birrificio Oswald-Berliner-Brauerei, al numero 78 della Bernauer Strasse, con angolo Wolgaster Strasse di Berlino Ovest, attuale Brunnen Strasse, Mimmo e Gigi, assieme ad altri 48 volontari, scavano a cinque metri di profondità, sotto la striscia della morte, un tunnel di 123 metri di lunghezza, sino ad arrivare in una casa abbandonata, al numero 7 della Schönholzer Straße, di Berlino Est. Attraverso quel tunnel e il coraggio di Ellen, (la staffetta) il 14 settembre del 1962, 29 tedeschi riuscirono a fuggire dalla prigionia di Berlino Est, senza che i Vopos, le guardie di frontiera del settore orientale di Berlino, si accorgessero di nulla. Tra loro c’era Peter Smith, uno dei migliori amici di Mimmo e Gigi, rimasto “intrappolato” insieme alla famiglia, dalla parte sbagliata del Muro.

Era quasi un anno che non ci vedevamo. Avevo fatto di tutto per ritagliarmi uno spazio per raggiungerlo e stare sola con lui. Arrivata a Berlino, non appena ci vedemmo, mi raccontò. 

Non potevo dirti tutto per telefono, mi disse Mimmo, visibilmente emozionato dopo il racconto. Capisci! Poi mi guardò con i suoi occhi neri, come faceva quando era preoccupato per qualcosa e non sapeva come comunicarlo e disse: Te la senti di fare la staffetta?

Restai sconcertata. Non me lo aspettavo. Ero venuta a Berlino per stare qualche giorno sola con lui e invece mi ritrovavo catapultata dentro una storia più grande di me. Dopo il suo racconto mi sentivo agitata. Avevo paura. Temevo di non farcela, di non essere capace di condurre un’azione così rischiosa e ardua.

Ma vi rendete conto di cosa mi state chiedendo? 

Volete che mi presti per un’impresa folle, quasi impossibile, per giunta in una città che non conosco né so come orientarmi. Eppoi, la polizia di frontiera!

Pensai. Io che ero venuta a Berlino per stare sola con lui per qualche giorno, mi ritrovavo invischiata in una faccenda dai contorni indefiniti che metteva a rischio persino la mia stessa vita. Ci guardammo e lasciammo per alcuni istanti che fossero gli occhi a parlare per noi. 
Datemi tempo, dissi. Almeno fino a domani. Ero come rassegnata. Sentivo che il destino doveva compiersi, ed io, dovevo solo assecondarlo. 

Andammo a mangiare un boccone sul Ku’damm, una meta obbligata per chi arriva a Berlino. Consumammo un panino con salsiccia piccante al curry, da uno slavo col carretto fermo all’angolo di una strada del centro, molto conosciuto tra gli studenti. Mi lacrimavano gli occhi dal piccante, ma la salsiccia era buona. Poi un caffè al “Am Steinplatz” e il ritorno alla Casa dello Studente.

Il 14 settembre era il giorno del mio compleanno. Mimmo tornò sull’argomento e mi chiese: Te la senti Ellen? Guarda che puoi tirarti indietro, nessuno ti giudicherà. Mi ero preparata nei giorni precedenti. Avevo memorizzato luoghi, percorsi, e soprattutto le frasi da pronunciare per farmi riconoscere. Con un gesto feci svolazzare il palmo della mano, come a sgombrare la mente da dubbi e paure. Eppoi, se fosse accaduto qualcosa, mi dissi, sarei fuggita in occidente passando per Varsavia. Dalla parte opposta della frontiera di Berlino Est, perchè lì, avrebbero chiuso tutti i check-point verso il settore occidentale della città e non mi sarebbe stato possibile lasciare la DDR. E pensare che doveva essere una vacanza! Io e Mimmo. Soli per tre giorni. A Berlino. Adesso che Mimmo mi ha raccontato, le cose sono cambiate. Non posso tirarmi indietro. 

Peter e Mimmo erano amici. Inconsapevolmente Peter, si era trovato il 13 agosto del 1961 dalla parte sbagliata del muro di Ulbrich e bisognava portarlo, assieme alla sua famiglia, verso la libertà. A nulla erano valsi gli avvertimenti di Mimmo a lasciare la DDR prima dell’erezione del muro, quando migliaia di berlinesi riparavano a Marienfelde, il centro di accoglienza dei berlinesi che decidevano di lasciare Berlino Est. Peter era convinto che a loro, studenti universitari, avrebbero consentito di muoversi liberamente in città per completare gli studi. 

Le cose andarono diversamente.

Avevo mal d’orecchio quel giorno. Presi una pillola, mi infilai un paio di jeans, addosso un impermeabile leggero chiaro e un fazzoletto sul capo, per nascondere i miei capelli rossi. Non potevo permettere che i miei capelli attirassero l’attenzione di qualcuno. Eppoi, mi sarebbe tornato utile per il mal d’orecchio. Lasciai la casa dello studente dirigendomi verso la stazione Zoo, da li presi la metropolitana per raggiungere la Friedrichstrasse. Arrivata sul posto cercai un taxi. Salii su una vecchia limusine e chiesi all’autista di portarmi alla Zionskirche. La chiesa, posta tra la Brunnenstrasse e la Schonauser Alee. La chiesa è uno dei  luoghi simboli della resistenza al nazifascismo, frequentata negli anni ‘80 dagli oppositori alla DDR. Avevo ancora un’ora di tempo prima di iniziare la mia missione. Entrai in chiesa. Un edificio costruita in stile neogotico in mattoni rossi. Mi sedetti sulla panca ed osservai l’abside. Ascoltai il silenzio di quel luogo che trasfondeva calma e serenità, abbandonandomi a sublimi emozioni. Ricordi del passato.
Ma cosa stavo facendo! Non ero mica li in gita, ne potevo lasciarmi andare ad inutili nostalgie. Mi ricordai delle preghiere di mia madre quand’ero bambina e pregai. Chiesi al Signore di aiutarmi. Di stendere la sua mano protettrice su quanto stavo facendo e proteggere soprattutto le persone che stavo aiutando. Ripercorsi mentalmente per l’ennesima volta i luoghi, le strade, le parole da pronunciare, i segni da mostrare, che avevo memorizzato.  Uscita dalla chiesa mi diressi verso il campo da gioco. Le strade di Berlino est a quell’ora del giorno erano poco affollate. La gente al lavoro. Qualche anziano, scostando le tendine, osservava dietro i vetri delle finestre, le strade in cerca di passanti. Erano tempi difficili. I bambini, come al solito, a scuola, mentre le madri per mercati a fare spesa. Il parco col campetto da gioco era vuoto. Mi sedetti sulla panchina e finsi di leggere un quotidiano che avevo acquistato. in realtà osservavo la finestra dell’ultimo piano del palazzo di fronte, oltre il muro, all’incrocio tra la Bernauer e la Wolgaster strasse. Improvvisamente la finestra si aprì e venne steso un lenzuolo bianco. Era il segnale che aspettavo.

Erano circa le 11, attesi alcuni minuti fumando una sigaretta. Il lenzuolo era ancora lì, segno che tutto era tranquillo. Mi guardai intorno, non c’era nessuno. Tirai un lungo respiro, mi alzai e mi incamminai lungo la Bernauer strasse verso l’incrocio con la Brunner strasse. 

Fatti alcuni isolati individuai la taverna. Il luogo stabilito per il primo incontro. Entrai. Avevo il cuore in gola. Mi avvicinai verso il bancone della mescita. Un gruppo di anziani discuteva animatamente davanti ad un boccale di birra semivuoto. Più in là, oltre una porta ad arco, una seconda sala molto più grande ed affollata.

Quasi tutti i tavoli erano occupati. Quelli del bancone mi guardarono, come a chiedersi cosa ci facesse una giovane donna a quell’ora in una taverna. Un gruppo di giovani, vecchi e bambini seduti ad un tavolo sul lato sinistro in fondo al salone, mi osservava in silenzio col fiato sospeso, seguendo con gli occhi i miei movimenti, senza distogliere lo sguardo. Non dovevo dare nell’occhio. Cercai di avere un comportamento il più normale possibile.
Con il “BZ am Abend” ben piegato sotto il braccio, in modo tale che le due lettere iniziali della testata del giornale fossero ben visibili, ordinai con voce alta, per farmi sentire da tutti, un pacco di fiammiferi. L’oste si voltò, prelevò i fiammiferi dallo scaffale mentre io ne approfittai per lanciare un’ultima occhiata alla sala.

Alcuni, nonostante la rapida occhiata mi sembrò di individuarli nei loro visi pallidi e silenziosi. Immobili come statue. 

Pagai, presi la bustina dei fiammiferi, ringraziai l’oste a voce alta, e, lentamente, mi avviai verso l’uscita facendo in modo che le persone presenti in sala mi vedessero bene. Mi augurai che i due segnali, quello del giornale e dei fiammiferi fossero stati notati e compresi da tutti.
Fatti due o trecento metri, attraversai la strada, passando dall’altra parte.  Mi voltai lentamente guardando in direzione della taverna. Non vidi nessuno, segno che tutto era tranquillo. 

Più in la mi fermai nuovamente fingendo di osservare la finestra di un palazzo. Con la coda dell’occhio notai un gruppo di persone che lasciava la taverna dirigendosi verso di me.  A quel punto pensai che i due segnali erano stati colti e il gruppo dei fuggiaschi mi stava seguendo. Segno che tutto procedeva secondo il piano. Tirai un lungo sospiro di sollievo.
Nonostante il gruppo fosse lontano, riuscii a capire che si trattava di Peter, l’amico universitario di Mimmo e Gigi e la sua famiglia. 

Quella che sospingeva il carrozzino con una bimba piccola doveva essere Evelyne, mentre Peter e sua madre la seguivano.

Mi allontanai di un centinaio di metri e ogni tanto mi fermavo facendo finta di guardare il civico dei palazzi per prendere tempo ed approfittare per scrutare la strada alle mie spalle. Ad un certo punto notai una giovane coppia, anch’essa con una carrozzina, che si dirigeva verso il numero 7 della Schonholzer Strasse. Era il secondo gruppo di fuggiaschi della prima taverna. Respirai profondamente ancora una volta. 

La strada era deserta. Non avevo visto neanche un poliziotto di frontiera. Eppure sapevo che pattugliavano frequentemente la zona di confine del settore.
Raggiunsi nuovamente il campetto da gioco e mi sedetti sulla panchina volgendo lo sguardo al palazzo di fronte altre il muro. Mi accertai che il lenzuolo bianco fosse ancora appeso. Lo era. Segno che tutto procedeva per il verso giusto e che non era insorto nessun problema.

Ancora un lungo sospiro di sollievo. Le “talpe” a breve, avrebbero accolto i primi fuggiaschi.

Si era fatto quasi mezzogiorno e l’orecchio aveva ripreso a farmi male. Buttai giù altre due pillole. Lasciai la panchina e stranamente, invece di allontanarmi dalla zona di confine, mi inoltrai lungo la Schonholzer Strasse.  

Per strada non c’era anima viva. Non avevo notato neppure una pattuglia dei Vopos, le guardie di confine, che generalmente ispezionavano  la zona a ridosso del muro, la cosiddetta striscia della morte.

Giunta davanti al numero 7 della Schonholzer Strasse il punto di partenza mi fermai. Non seppi resistere alla tentazione. Entrai nell’edificio e mi ritrovai in un ampio atrio. In un angolo alcune carrozzine accostate ad una parete che aveva perso colore per il tempo trascorso dall’ultima mano di pittura. Per il resto nessun rumore, solo silenzio. Salii la prima rampa di scale. Ad un tratto mi fermai. 

Ma cosa stavo facendo? Scesi rapidamente. Che scusa avrei trovato se un’inquilina mi avesse visto?

Avevo il cuore in gola. Mi ero resa conto che il mio comportamento avrebbe potuto mettere in pericolo i fuggiaschi e mandare all’aria l’intera operazione e messo in pericolo la mia stessa vita. Ellen sei nella DDR, mi dissi, l’hai dimenticato? E, come se una vespa mi avesse punto, ridiscesi le scale frettolosamente, uscii dall’edificio e raggiunsi il parchetto.

A quel punto mi calmai. Grazie a Dio non era accaduto nulla. 

Dopo aver verificato che sull’edificio oltre il muro della morte il lenzuolo bianco era ancora steso al balcone, segno che tutto procedeva per il verso giusto, lentamente mi avviai verso la seconda taverna. Avevo tempo, dal momento che, tra il primo gruppo di fuggiaschi ed il secondo, dovevano passare alcuni minuti, per evitare un intasamento del tunnel.

Inoltre, anche dopo il passaggio del secondo gruppo, serviva ancora del tempo, per verificare la tenuta dei puntelli della galleria e riparare eventuali danni. Dal momento che dovevo presentarmi nella seconda taverna alle 14, avevo ancora due ore di tempo. Per questo decisi di andare ad ispezionare le zone delle altre due taverne per farmi un’idea. Quella parte di Berlino, ad eccezione del parchetto giochi e della Zionskirche, mi era ancora totalmente sconosciuta.

Le altre due taverne erano nei pressi della Kastanienallee, il viale degli ippocastani.

Mi avviai verso la seconda taverna dove dovevo incontrare il secondo gruppo di fuggiaschi. Lo individuai subito e guardai nei paraggi per familiarizzare con il luogo. L’idea di prendere confidenza con la zona mi faceva sentire più sollevata e più sicura. Trovai anche la terza taverna. 

Rasserenata, proseguii lungo la Fehrbelliner Strasse in direzione della Schonhauser Allee. Notai in una stretta via traversa una trattoria dall’aria poco allettante. C’era una lavagna esposta in vetrina con il menu del giorno scritto col gessetto in grande: “Pranzo” e sotto “ Arrosto con cavoli rossi e patate”.

Decisi di entrare e mangiare per mettere dentro lo stomaco qualcosa di solido, dopo tutte le pillole che avevo preso per il mal d’orecchio.

Entrai e vidi subito che era frequentata da soli uomini in prevalenza operai. che discutevano a voce alta bevendo birra. Alla mia vista zittirono tutti e mi squadrarono da capo a piedi. Sfilai davanti a loro e mi sedetti al tavolo posto nell’altra sala. Ordinai il piatto del giorno. Arrivò dopo aver atteso un bel pò ma in compenso era buono ed abbondante. Come si dice da noi, cucina casalinga.

Avevo ancora due messaggi da consegnare. Rilessi gli appunti cifrati che avevo nel taccuino e andai in bagno. Pensai che era giunta l’ora di sbarazzarsi di quegli appunti compromettenti. Quello che dovevo fare era ben chiaro. Strappai le pagine facendole a pezzetti e li gettai nella tazza. Subito dopo tirai lo sciacquone.

Tornai al tavolo chiamai la cameriera, pagai il conto con una banconota di dieci marchi orientali, dicendole di tenere il resto.

Uscita dalla trattoria raggiunsi il campetto da gioco, guardai l’orologio e mi resi conto che mancava poco alle due. Alle 14 dovevo prendere il secondo gruppo di profughi.

Guardai nuovamente la finestra per assicurarmi che tutto era in ordine. Il lenzuolo era ancora esposto, segno che tutto filava liscio e immaginavo che il primo gruppo di fuggiaschi avesse già raggiunto la libertà dall’altra parte del muro, nella Berlino Ovest. A questo punto mi diressi lungo la Brunnenstrasse dov’erano le altre due taverne non distanti l’una dall’altra. 

Nel secondo locale dovevo fermarmi al banco, mostrare bene la testata del giornale e ordinare un bicchiere di acqua minerale. Erano questi i segnali concordati che i fuggiaschi stavano aspettando, per avviarsi a piccoli gruppi, dopo la mia uscita, in direzione della casa al numero 7 della Schonholzer Strasse.

Entrai nel bar e mi diressi dritta al banco. In fondo, un gruppo di persone sedute in silenzio, composte osservano chi entrava, come se aspettassero qualcuno.

Ordinai l’acqua, in modo che tutti potessero sentire. Un giovanotto dai capelli biondi mi fissava tenendo le mani sul bordo del tavolo quasi a volergli impedire di volare. Indossava un abito scuro con camicia bianca e cravatta. Sembrava reduce di una cerimonia religiosa o civile, frequenti nella DDR. 

Bevvi lentamente l’acqua e guadagnai l’uscita in direzione della Zionskirche. Entrai nuovamente in chiesa e mi sedetti ad uno degli ultimi banchi in prossimità della porta.

Socchiusi gli occhi come a volermi concentrare. La tensione cresceva. Pensavo a cosa avessi addosso di compromettente che avrebbe potuto crearmi problemi in caso mi avessero scoperta. Ripresi il taccuino degli appunti e lo sfogliai pagina per pagina. Mi tranquillizai quando vidi che erano rimasti solo i miei indirizzi di Dusseldorf con relativi numeri di telefono assolutamente innocui e pagine vuote.

Erano passate le 15, non mi restava altro che avvisare i fuggiaschi riuniti nella terza taverna.

Raggiunsi di nuovo il campetto da gioco per vedere se il lenzuolo era ancora esposto alla finestra e se potevo quindi dare il via libera al terzo e ultimo gruppo. Mi preoccupai quando vidi che il lenzuolo non era ben steso e scossi il capo per allontanare cattivi pensieri. Lo sguardo però, andava sempre in alto verso la finestra a controllare lo stato del lenzuolo. Ad un certo punto notai che era stato risistemato. Evidentemente qualcuno aveva notato col binocolo il mio nervosismo e si era adoperato a sistemare per bene il segnale concordato. Ora il lenzuolo era steso e ben visibile, pensai che anche i fuggiaschi della seconda taverna dovevano essere ormai arrivati felicemente dall’altra parte del muro.

Sollevata lasciai il parchetto e mi incamminai verso la Kastanienallee.

C’era più gente per strada a quell’ora e il quartiere sembrava che poco a poco si stesse progressivamente animando per la fine dei turni di lavoro e il ritorno a casa.

Entrata nel terzo locale trovai il bancone completamente occupato. L’ambiente, molto vasto, era affollato e ai tavoli erano seduti molti giovani ma anche anziani.

 Mi sedetti ad un tavolo libero, mi tolsi l’impermeabile e feci un cenno al cameriere che subito raggiunse il tavolo dov’ero seduta e, alla sua domanda risposi a voce alta: “Una tazza di caffè”, accentuando marcatamente l’ultima vocale.

“Una tazza di caffè” era il segnale convenuto che i profughi in attesa nella terza taverna si aspettavano.

Il cameriere mi guardò seccato e disse scortesemente “Niente caffè”.

Poco mancava che svenissi. Mi sentivo persa e non sapevo che fare.

E adesso cosa posso dire affinchè quelli capissero ugualmente che sono la staffetta?

Mi misi a pensare spasmodicamente e, a voce alta dissi: Ma come non avete caffè? Nessun tipo di caffè? 

No, rispose spazientito il cameriere, nessun tipo di caffè.

Se non avete neanche una tazza di caffè, risposi alzando la voce e rimarcando  “una tazza di caffè”, allora mi porti almeno un cognac.

Il cameriere tornò poco dopo e mi sbattè letteralmente sul tavolo il bicchiere di cognac.

Non avevo mai bevuto un cognac a quell’ora, ma se serve alla causa mi dissi, lo farò. E così presi il bicchiere, mi guardai intorno a destra e a sinistra e, sollevato il bicchiere, lo bevvi tutto d’un colpo nella speranza che i fuggiaschi osservandomi capissero il senso di quel gesto.

Avevo i nervi tesi e mi accesi una sigaretta per distendermi. 

Gli organizzatori non avevano considerato che per via della carenza di valuta occidentale nella Berlino comunista, non sempre si trovava nei locali merce d’importazione.

Il caffè era da tempo nella Germania orientale un articolo molto richiesto che veniva portato o spedito da amici e parenti dell’Occidente.

Cercai con lo sguardo di intravedere il gruppo in attesa di fuggire, senza dare nell’occhio. Potevo riconoscerli dalla loro compostezza e dal fatto che mi fissavano e seguivano con gli occhi ad ogni mio gesto e  movimento.

Pagai senza lasciare mancia e lasciai il locale. Ero nervosa. Quello che mi era accaduto non riuscivo a scrollarmelo di dosso.

Raggiunsi per vie traverse il parchetto e controllai per l’ultima volta che il lenzuolo bianco fosse ancora esposto, segno quest’ultimo che mi avrebbe rassicurata che tutto procedeva senza intoppi.

 Con sollievo vidi che il lenzuolo bianco era esposto. In quell’attimo mi sembrò addirittura più bianco e luminoso.

Il mio lavoro era finito. Finalmente. Mi accesi una sigaretta. Adesso dovevo solo pensare a rientrare in Occidente e non era affatto scontato.

Cercai un taxi, non ne vidi e mi incamminai verso la Schonhauser Allee. Qui finalmente ne vidi uno che mi veniva incontro. Lo fermai con un cenno, salii e dissi al conducente di portarmi alla stazione metropolitana nella Friedrichstrasse.

Quando partì mi ripassai mentalmente la giornata che avevo vissuto. Sobbalzai quando mi resi conto che avevo in borsetta nascosto del denaro.

Come potevo rimediare? Dovevo agire in fretta e liberarmene. Non mancava molto al controllo di frontiera.  

Arrivati il tassista mi disse l’importo da pagare. Gli allungai una banconota da 100 marchi orientali e aggiunsi “va bene così”.

Il tassista mi guardò e sorrise. Mi erano rimasti però altri 1100 marchi orientali nella borsetta. 

Risoluta, presi i marchi rimasti dalla borsetta, li arrotolai e allungai nuovamente la mano verso l’autista. Lui aprì la sua e li accolse, poi li guardò, spalancò la bocca e richiuse la mano. Poi la riaprì e tornò a guardarmi incredulo. Erano parecchi soldi, l’equivalente di due paghe mensili. Non dimenticherò mai la faccia che fece e mentre tentava di dirmi qualcosa gli dissi bruscamente a voce alta “Arrivederci”. Aprii lo sportello e uscii dal taxiì

Mi ero liberata di tutti quei soldi, ma ero ancora tremante pensando al rischio che avevo corso. 

Il tassista intanto si era allontanato. Salii la scalinata fino all’atrio della sopraelevata dove c’era anche il punto di controllo di frontiera. 

C’era molta gente in procinto di rientrare a Berlino Ovest perlopiù tedeschi occidentali e stranieri. Mi misi in fila e aspettai il mio turno. Ad un certo punto vidi arrivare parecchi uomini e anche donne in divisa. Prelevarono dalle file alcune persone. Una venne verso di me, mi prese per un braccio e mi intimò di seguirla.

Mi calò la nebbia sugli occhi. Ero spventata ma nello stesso tempo mi dicevo di stare tranquilla perchè non avevo nulla da nascondere.

E se avessero scoperto i fuggiaschi? E se il tassista mi avesse denunciato?

Mentre pensavo a cosa potesse essere accaduto fui condotta dalla poliziotta in uno stanzino. Perquisizione personale mi disse la poliziotta in tono severo. Si spogli per favore e mi dia la borsetta.

Mentre mi spoglivo quella svuotò sul tavolo la borsetta, l’astuccio del trucco, pettine, taccuino, specchietto, sigarette, pillole, fiammiferi e il denaro che mi era rimasto. Dopo aver palpeggiato la borsetta venne a palpeggiare me dappertutto, ma proprio dappertutto.

Non avevo mai subito un’ispezione corporale di quel genere. Una cosa umiliante., terribile.

Non avendo trovato nulla di compromettente mi chiese il perchè della mia visita a Berlino Est.

Le dissi che era venuta per incontrare una vecchia amica di mia madre che però non ero riuscita  rintracciare e, approfittato della circostanza, ho fatto un giro per conoscere la città.

Le risposte parvero convincere la poliziotta che mi invitò a rivestirmi.

Dopo il controllo del passaporto salii sul treno diretto a Wannsee che partì dopo pochi minuti.

Dopo un po ‘il treno si fermò alla stazione di Lehrt, la prima della metropolitana sopraelevata nel settore occidentale. E qui soltanto, in Occidente, mi sentii al sicuro.

Mentre seguivo i miei pensieri arrivai alla stazione Zoo.

Scesi dal treno, mi diressi verso l’uscita, cercai un taxi e mi feci condurre nella Ansbacher Strasse.

L’impegno assunto si era concluso con successo.

Liberamente tratto da “Il tunnel della libertà”, Ellen Sesta, Garzanti, 2002

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